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Conversando di diritti animali con Hitler pt. V: il testamento di morte

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Un testamento di morte rappresenta spesso un documento molto interessante per far luce sulla personalità del suo autore, in particolare all’interno della ricerca storica può rivelare informazioni importanti ed essenziali su un personaggio e offrire nuovi spunti per il dibattito tra gli studiosi. Un testamento di morte può indicare particolari intimi del defunto tenuti nascosti in vita, come preferenze parentali inattese, o fornire indicazioni sui caratteri più genuini della sua personalità, quali interessi, aspirazioni, principi, ideali e sogni particolarmente cari al testatore. In questo senso, anche il famoso testamento stilato da Hitler prima del suo suicidio può fornirci alcune indicazioni sulla personalità del dittatore tedesco.

Il testamento di Hitler si presenta diviso in due parti: un testamento privato e un testamento politico [1]. Il testamento privato si apre con la notizia del sodalizio matrimoniale con la sua compagna di lunga data Eva Braun da poco celebrato. Hitler dichiara quindi di lasciare tutti i suoi beni al partito nazista (o, se questo «non dovesse esistere più, allora allo Stato»). Egli riferisce inoltre: «Ho acquisito collezioni di dipinti nel corso degli anni non per scopi privati, ma unicamente mosso dal desiderio di ampliare una pinacoteca della mia città natale, Linz. Mi auguro con tutto il cuore che si effettui questo lascito». Questa dichiarazione non stupisce: è infatti nota la passione dell’ideologo nazista per la pittura e l’arte in generale. Segue poi la decisione di lasciare «tutto ciò che può avere un valore personale o che può servire al mantenimento di un umile tenore di vita» alle sorelle, alla suocera e ai più fedeli collaboratori e collaboratrici. Questa prima parte del testamento si chiude infine con la volontà che il suo corpo e quello della moglie (che lo accompagnerà nel suicidio) vengano «bruciati sul luogo in cui ho svolto gran parte del mio lavoro quotidiano nel corso di questi dodici anni al servizio del popolo».

Il testamento politico si presenta invece come una dichiarazione con appelli concitati e visionari intrisi di nazionalismo, militarismo e, naturalmente, antisemitismo, chiudendosi con l’invito al governo e al popolo tedesco «di opporre una strenua resistenza alla minaccia, sempre più vasta e velenosa, dell’internazionale giudaica». Al di là del suo carattere allucinato, il testamento politico non sorprende più di tanto, poichè non è altro che un testo in perfetto stile hitleriano, confermando quelli che sono i principi più radicati del leader tedesco. Sarebbe stato al contrario piuttosto insolito che Hitler, nelle sue ultime righe prima di togliersi la vita, non si esprimesse appellandosi ai valori che più di tutti, negli anni più intensi della sua vita, lo avevano ispirato nel pensiero e nell’azione.

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Conversando di diritti animali con Hitler pt. IV: sull’antropocentrismo

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Nei tre articoli precedenti, servendomi delle sue stesse parole e al di là delle credenze mitologiche dei detrattori dell’animalismo, ho mostrato come in Hitler non vi fosse traccia alcuna di un sincero sentimento di compassione per il mondo animale. Ciò, dopotutto, non dovrebbe sorprendere se si conosce il pensiero del dittatore tedesco e si ha la volontà di andare oltre la retorica superficiale e strumentale dei fanatici dello sfruttamento animale. Hitler condivideva infatti una visione della vita radicalmente antropocentrica, tipica della cultura specista, tanto che giunse a scrivere:

Se posso accettare un comandamento divino, questo è: preserva la specie [umana]. [1] … Io sogno uno stato di cose in cui ogni uomo comprenda di dover vivere e morire per la conservazione della specie [umana]. È nostro dovere incoraggiare questa idea: lasciare che colui che si distingua nel servizio della specie [umana] sia giudicato degno del massimo rispetto. [2] … La convinzione che, obbedendo alla voce del dovere, si lavora per la conservazione della specie [umana], aiuta a prendere le decisioni più importanti. [3]

Quali siano state poi «le decisioni più importanti» a cui approdò il dittatore tedesco nel suo impegno nel preservare la specie umana (dalle contaminazioni biologiche), sono ben note a tutti dai resoconti sull’operato nazista. Hitler, tuttavia, nella sua colossale impresa sterminatrice era sinceramente convinto di operare al «servizio della specie umana» in veste di magnanimo benefattore, incarnando una logica antropocentrica estrema e ben lontana dal pensiero antispecista. In altre parole, sono proprio le ansie antropocentriche di Hitler e le sue preoccupazioni per l’umanità a condurlo all’eliminazione della massa di coloro considerati subumani, un’impresa che ai suoi occhi si presentava come un necessario sacrificio per il bene del popolo umano. In un passo che sembra ispirato dalle tesi degli odierni fautori della sperimentazione sugli animali, Hitler dichiara:

Ho imparato che la vita è una lotta crudele, che non ha altro scopo che la preservazione delle specie. … Io preferirei non vedere soffrire nessuno, non nuocere a nessuno. Ma quando mi rendo conto che la specie [umana] è in pericolo, allora nel mio caso il sentimento lascia il posto alla ragione più fredda. Divento unicamente consapevole dei sacrifici che il futuro richiede, per compensare i sacrifici che si esita a consentire oggigiorno. [4]

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Conversando di diritti animali con Hitler pt. III: sugli animali

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Oltre alle questioni del vegetarianismo e della caccia, di cui ho discusso nei due precedenti articoli, resta ancora da esaminare l’aspetto centrale professato dai predicatori del mito zoofilo hitleriano, ovvero il suo (presunto) fondamentale sentimento di amore per il mondo animale e in particolare per i cani, persuasivamente giustapposto dai detrattori dell’animalismo al suo fondamentale sentimento di odio per il mondo umano e in particolare per gli ebrei. Anche in questo caso la raccolta delle sue conversazioni a tavola ci offre l’occasione per indagare su questo aspetto del leader del terzo Reich.

Nell’opera, in effetti, compare qualche storiella sui cani. Tra queste, la più interessante e particolareggiata è quella di Fuchsl, il piccolo randagio suo compagno durante il servizio militare al fronte negli anni della Prima Guerra Mondiale. Nel rievocare i momenti vissuti con questo cane tra un aneddoto e l’altro, Hitler ricorda lo stretto legame che lo univa all’animale:

Ero incredibilmente affezionato alla bestia. Nessuno poteva toccarmi senza che Fuchsl diventasse immediatamente furioso. Egli non avrebbe seguito nessuno ad accezione di me. … Condividevo ogni cosa con lui. Quando veniva la sera, lui usava accovacciarsi accanto a me. … Quando ho lasciato il treno ad Harpsheim, all’improvviso mi sono accorto che il cane era sparito. … Ero disperato. [1]

Da queste parole evidentemente traspare un sincero sentimento di affetto di Hitler per questo suo compagno non umano. Tuttavia, non sembra che questo slancio emotivo sia poi molto diverso dall’affetto che molti di coloro che hanno un cane, con cui riescono ad instaurare un genuino e profondo legame empatico, provano per il proprio amico o la propria amica scodinzolante. Anche la passione con cui Hitler narra delle vicende di Fuchsl è tipica di coloro che vivono con un cane, che spesso si lanciano in avvincenti storielle sul proprio beniamino.

Ma tutto ciò, per chi non è annebbiato da sentimenti di odio per chi ama un animale, non sembra essere un motivo sufficiente per temere che queste persone (compreso il sottoscritto) si trasformino, da un giorno all’altro, in pericolosi criminali assassini. Eppure, nella loro scollegata razionalità, questo è proprio ciò che sostengono i fanatici della crudeltà animale: Hitler amava i cani, per cui provare un sentimento di affetto per un cane (o un qualsiasi altro animale) sarebbe indizio di una minacciosa perversione antiumana.

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Conversando di diritti animali con Hitler pt. II: sulla caccia

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Oltre alla questione del vegetarianismo di Hitler, di cui ho discusso nel precedente articolo, un altro aspetto interessante collegato al mito zoofilo hitleriano è quello della altrettanto celebrata avversione del dittatore tedesco per la caccia. Anche in questo caso la raccolta delle sue conversazioni a tavola ci offre la possibilità di far luce sulle opinioni dell’ideologo nazista riguardo a questa sanguinaria pratica, a partire dalla sua dichiarazione, già menzionata, in cui Hitler afferma orgoglioso:

Non sono un ammiratore del bracconiere, in particolare dal momento che sono vegetariano; ma in esso io vedo il solo elemento di romanticismo nel cosiddetto sport della caccia. [1]

Da queste parole dovremmo concludere che, se Hitler era – come gli appassionati detrattori dell’animalismo dicono sia stato – uno strenuo oppositore della caccia, si trattava allora di un oppositore piuttosto originale, dal momento che rintracciava anche un’aura di romanticismo nella truce pratica venatoria, per di più riconducendola alla figura del bracconiere. Questa dichiarazione dovrebbe già da sola essere sufficiente per far sorgere più di qualche dubbio sulla genuinità di Hitler quale fervente oppositore della caccia, sebbene, in effetti, in un’altra conversazione egli dichiari apertamente la sua avversione per questa efferata attività. Il passo è particolarmente illuminante ed è bene citarlo per intero:

Io non vedo nulla di male nella caccia alla selvaggina. Semplicemente, dico che si tratta di uno sport deprimente. Quello che mi piace di più della caccia è il bersaglio e, accanto a questo, il bracconiere. Questo almeno rischia la propria vita in questo sport. L’aborto più insignificante può dichiarare guerra a un cervo. La battaglia tra un fucile a ripetizione e un coniglio – che non ha fatto alcun progresso in tremila anni – è troppo impari. Se il signor tal dei tali dovesse correre più veloce del coniglio, allora di fronte a lui mi toglierei il cappello. [2]

Chiaramente Hitler assume qui una posizione critica verso la caccia. Tuttavia occorre fare alcune osservazioni. Egli innanzitutto si riferisce agli animali uccisi come «selvaggina», dunque inquadrandoli già in un’ottica specista e connotandoli di un valore puramente utilitaristico ai fini umani: evidentemente per Hitler l’animale inseguito e ucciso ha valore solo in quanto «selvaggina», pietanza già destinata alla tavola umana, negando pertanto ogni concettualizzazione dell’individuo animale quale essere senziente con un proprio valore. Egli inoltre considera la caccia come un semplice «sport», definizione che denota una valenza amorale della pratica venatoria e la depriva di ogni richiamo alla violenza implicita.

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Conversando di diritti animali con Hitler pt. I: sul vegetarianismo

 

Nell’insistente campagna diffamatoria contro gli attivisti per gli animali promossa dai fanatici della crudeltà animale l’intera impresa verte sulla simbolizzazione dell’animalista quale entità collettiva intrinsecamente subdola, meschina e perniciosa. Un ruolo fondamentale in questo processo spetta, in un impiego di reductio ad Hitlerum da manuale, ad un mitico parallelo tra animalismo e nazismo, estremamente funzionale nei suoi effetti persuasivi per l’assimilazione dell’animalista con il male assoluto.

Secondo questa costruzione mitologica il regime nazista, specie nelle sfere più alte del potere e a partire da Hitler, era pervaso da un profondo sentimento di amore per gli animali, tanto che vennero emanate leggi a protezione degli animali all’avanguardia e la sperimentazione sugli animali venne abolita e sostituita con la sperimentazione sugli esseri umani. Più di recente, poi, i deliri complottistici di certi fanatici della sperimentazione sugli animali hanno arricchito il parallelo nazisti-animalisti attribuendo al movimento animalista l’inverosimile uso strumentale di una propaganda mistificatoria che si ispirerebbe alle stesse metodiche persuasive messe in atto dal regime nazista.

Un esempio eccellente della disinvoltura con cui viene professata questa ortodossia è rappresentato dall’infelice Premio Hitler, riservato alle «personalità che si sono particolarmente distinte nell’animalismo» [1]: una farneticante iniziativa istituita da FederFauna, orgogliosamente sostenuta da Giulia Corsini [2] (membro del consiglio direttivo di Pro-Test Italia) e aspramente criticata sia dal presidente dell’ANPI di Bologna [3], sia da esponenti autorevoli della comunità ebraica italiana [4,5]. L’insistenza ossessiva mostrata dai detrattori dell’animalismo nell’abuso dell’associazione tra animalismo e nazismo rivela tuttavia come tale retorica nasconda in realtà meri fini persuasivi a fronte di un abissale vuoto argomentativo.

Questo mito è a tal punto suggestivo e diffuso che tuttavia permea anche ambienti culturali estranei allo schiavismo animale, venendo accettato acriticamente – con una superficialità e una pretestuosità argomentative sconcertanti – anche da autori per altri versi molto apprezzabili. Come è nella natura di ogni mito, la ripetitività dello stesso è sufficiente a renderlo dimostrato e dimostrabile, fino a lasciarlo assurgere al rango di dogma: per cui argomentare razionalmente l’esistenza di un preteso sentimento di amore per gli animali tra i nazisti si rivela, per il predicatore di turno, del tutto superfluo.

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